Mi accingo a questa lettura non senza qualche timore, perché non mi è stata richiesta e perché riguarda un autore, e prima ancora una persona, che non conosco.
Ci siamo incrociati una volta soltanto, sotto un mio portfolio.
Un commento puntuale, il suo.
Una risposta cortese, ma frettolosa, la mia.
Per altro, questo potrebbe facilitarmi il compito: non dovrei essere influenzata da null’altro che da ciò che vedo.
A fine settembre mi imbatto in una fotografia insolita.
È parte di una serie che, per ora almeno, si compone di due soli scatti (qui l’altro
LINK), nei quali ritrovo un visivo coerente (tra l’altro perseguito con evidente intenzione in altre sue realizzazioni), basato sulla netta separazione degli spazi, di una grande città moderna. In quello che mi interessa, grattacieli imponenti svettano in un cielo che pare disegnato con ampie spatolate di luce.
Un aereo si libra lontano.
Il saettare bianco dei tetti degli edifici industriali separa in modo netto quel che “sta sotto” che, a un primo sguardo, interpreto come un viadotto posato su massicci piloni.
Mi è sufficiente aprire la miniatura per accorgermi che, invece, si tratta di una vecchia lamiera ondulata, al di là e al di qua della quale la vegetazione tipica delle cose abbandonate sta, inesorabilmente, riprendendo i suoi spazi. Prendendo il sopravvento.
A colpirmi gli occhi è proprio questo sfalsamento dei piani, questo “davanti” che, a tutta prima, mi sembra “sotto”.
Condisce il tutto un bianco e nero ricco, quasi palpabile.
Infine (infine per me, essendo sempre l’ultima cosa su cui indago quando studio una fotografia), l’irruzione di un elemento all’apparenza incongruente: il titolo.
Decidere di dare un titolo a una fotografia è un impegno che si assume nei confronti di chi la guarda perché, fornendo una chiave di lettura, determina una visione veicolata.
Certo, ognuno è poi libero di guardare e trarre le proprie conclusioni, che saranno dettate dalla sua sensibilità, dalle sue esperienze, non solo visive, in altre parole dalla sua cultura, come si è andata formando nel tempo.
Ma … Il titolo resta, come un’ancora che impone all’osservatore di cercare, nell’economia dell’immagine, quanto chi l’ha realizzata sostiene di averci messo.
Il titolo diventa, così, una tesi che la fotografia deve dimostrare con solidi argomenti. L’immagine, dal canto suo, deve contenere in sé, contestualmente, argomentazioni a sostegno di quella tesi e una conclusione sulla validità delle argomentazioni stesse.
E in fondo non è poi così importante, come sostiene qualcuno (1), che fotografo e destinatario parlino a priori la stessa lingua, che interagiscano sullo stesso piano culturale, per poter veramente capirsi: se il “lettore” è un curioso cercherà certo di informarsi e formarsi sulle ragioni dell’autore.
“
Metropolis 2”, quindi.
Per me, il richiamo a Fritz Lang è immediato.
Vado a ripescare nella memoria quanto so del film.
Il 2026 è un futuro lontano, all’epoca in cui viene realizzato, ma assai prossimo a quest’oggi, in cui viviamo cose che, nel 1927, mai si sarebbero potute nemmeno sognare. In cui, per contro, tutte quelle allora immaginate ci appaiono ingenue.
Tuttavia, per certi aspetti, il film racconta una storia che ha risvolti inquietantemente attuali.
Una società sempre più spaccata (da non dimenticare che la pellicola viene realizzata durante la Repubblica di Weimar), in cui i ricchi abitano alti grattacieli che si stagliano su cieli carichi di presagi, trascorrendo le giornate in inutili mollezze, mentre i poveri, sfruttati e ridotti a poco più che macchine, sono relegati nel sottosuolo, impegnati in un lavorio incessante e fine a se stesso.
Su tutti veglia il Dittatore, proprietario della fabbrica in cui giorno e notte faticano gli uomini del sottosuolo.
La sua sola presenza garantisce l’ordine, l’agiatezza ai pochi, lo stretto necessario ai molti.
La calma apparente viene travolta dall’arrivo improvviso nella vita del figlio del Dittatore della bellissima insegnante e profetessa Maria che, mentre gli operai meditano la rivolta, parla ai loro figli di un mondo migliore, pacificato e senza iniquità.
Il complesso "titolo-fotografia" dunque, a mio parere, si risolve in senso positivo (2).
Ritrovo, infatti, il doppio sistema di relazioni. Quello interno, tra le componenti dell’immagine, che “si tengono” (3) le une rispetto alle altre, in un’unità che ne determina il senso: gli edifici “sopra”, solo apparentemente solidi ma che, a causa di ciò che sta “in mezzo” e non permette di vedere oltre, hanno fondamenta già corrotte da ciò che sta arrivando "da sotto".
Quello esterno, collegato al titolo attraverso i significati che le componenti dell’immagine richiamano.
Così, a rispondenze dirette, come ad esempio i grattacieli, presenti tanto nel film quanto nell’immagine, fanno da contraltare correlazioni mediate, metafore quindi, come possono esserlo la vegetazione che invade lentamente le strutture e che, provenendo dal sottosuolo, associo ai facinorosi pronti ad insorgere. O ancora l’aereo che solca il cielo, distante eppure catalizzante, che mi piace vedere come Maria, portatrice di un’idea di libertà.
Infine, Antonio rispetta i patti anche dal punto di vista iconografico, riprendendo come se fosse "una città del futuro" quella che, curiosamente, altro non è che una città del nostro presente. E lo fa attingendo al bagaglio di immagini dello stesso tipo che tutti, volenti o nolenti, ci portiamo appresso.
Immaginata da Lang e incessantemente replicata da generazioni di fotografi e cineasti (basti pensare a Batman, a Blade Runner ...) cupa, incombente, fatta di strutture svettanti che schiacciano a terra e nel sottosuolo l’uomo, in lotta continua per la sopravvivenza, comunque reificato, tanto nella gloria del denaro e del potere, quanto nella riduzione a macchina utensile, quella città è poi New York, cui lo stesso Lang dice di essersi ispirato, una metropoli appunto, anzi, Metropolis, il paradigma di tutte le metropoli: tentacolare, in perenne movimento, incontenibile, dove tutto può succedere, soprattutto l'imprevedibile, in cui le persone sono sempre ritratte nell’atto di muoversi, spesso all’unisono, da un luogo a un altro e quasi mai nel punto di partenza o in quello di arrivo.
by Teresa Zanetti\Redazione photo4u.it
Note:
(1) Jean-Marie Floch, Les Formes de l’Empreinte, éd. Pierre Fanlac, Périgueux, 1986
(2) John Stuart Mill, System of Logic, in Collected Works of John Stuart Mill: a System of Logic, Ratiocinative and Inductive, ed. Liberty Fund, London 2006
(3) Charles Bally et Albert Séchehaye, Ferdinand de Saussure - Cours de Linguistique Générale, éd. Payot, Paris, 1971