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photo4u.it - Libri
L'occhio del fotografo (John Szarkowski)
Titolo: L'occhio del fotografo

Autore: John Szarkowski
Italiano, dimensioni 21,5 x 23 cm
Edizioni: 5 Continents
156 pagine, 156 illustrazioni in bicromia;
Cartonato con sovracoperta;
Costo: € 35,00


Non è stata l’estrema difficoltà nel reperimento del libro, oggetto della presente recensione, e la possibile reattanza psicologica che ne potrebbe conseguire in seguito ad un fenomeno di scarsità ad aumentare il valore della presente opera. Il testo di John Szarkowski, direttore emerito del dipartimento di fotografia di un tempio dell'arte mondiale come il MoMA (Museum of Modern Art) di New York, rappresenta senza ombra di dubbio uno dei più autorevoli libri di fotografia in circolazione, uno di quei libri "preziosi", da leggere avidamente con la stessa consapevolezza e attenzione che si presterebbe ad una lezione tenuta da un grande Maestro. Questo volume viene finalmente a colmare una grossa lacuna nell'ambito dell'editoria fotografica italiana. Una curatissima raccolta di immagini attentamente selezionate secondo un preciso filo logico che, quarant'anni fa, svelarono un nuovo, rivoluzionario modo di "pensare" la fotografia. Un’illuminante premessa sull'arte del medium fotografico, un’ introduzione al suo linguaggio comunicativo, alla sua grammatica e alla sua sintassi. L’edizione dalla 5 Continents ri-propone un’opera già pubblicata per la prima volta nel 1966, in seguito ad una delle tante riuscite esposizioni fotografiche allestite al MoMA di New York: una specie di catalogo fotografico della mostra che poi divenne un'opera classica di riferimento, un'introduzione alla storia del linguaggio visivo fotografico. Qual’ è la natura dell’occhio fotografico? Come funziona? Quali sono le proprietà esclusive di questo nuovo sguardo automatico, così diverso da ogni altro sguardo precedente, primo fra tutti quello dell’arte? L’opera di Szarkowski si propone di analizzare come appaiono le fotografie, e perché si mostrano così; intende esaminare la tradizione e lo stile di questa arte, nonché le molteplici possibilità che si offrono al fotografo nel suo lavoro. L'invenzione della fotografia aveva fatto nascere un modo radicalmente nuovo di creare immagini, secondo un processo basato non sulla sintesi, ma sulla selezione. Una differenza fondamentale. Le immagini dipinte si creavano - si costruivano a partire da un bagaglio di schemi, di tecniche e di impostazioni tradizionali - mentre le fotografie, come si dice comunemente, si scattavano. Una simile differenza sollevava un problema creativo nuovo: come si poteva far sì che un procedimento meccanico e non intenzionale riuscisse a fornire immagini significative sul piano umano, immagini dotate di limpidezza e coerenza? Ben presto divenne evidente che solo chi non era troppo innamorato delle antiche forme sarebbe riuscito a trovare la risposta: infatti il fotografo era in gran parte orfano delle vecchie tradizioni arti-stiche. I nuovi modi sarebbero stati individuati da coloro che seppero abbandonare i criteri tradizionali della pittura; oppure da coloro che, del tutto ignoranti di Arte, non dovettero infrangere nessun antico patto di fedeltà. Questo secondo gruppo di uomini fu davvero numeroso. Data l'estrema popolarità, il medium fotografico fece nascere migliaia di professionisti: ex argentieri, stagnai, farmacisti, fabbri e tipografi. Se era vero che la fotografia poneva un problema artistico nuovo, queste persone avevano il vantaggio di non dover disimparare niente. Fra tutti, produssero una mole enorme di immagini: alcune di queste erano il frutto di un sapere e di una tecnica, di sensibilità e d'inventiva; molte erano invece il frutto dell'improvvisazione. Ma ciascuna immagine, che fosse nata dall'Arte o dalla Fortuna, contribuiva a sferrare un attacco in forze contro il modo consueto, abitudinario e tradizionale di vedere le cose. Queste immagini, sia che fossero scattate da professionisti qualificati o da dilettanti della domenica, erano diverse da tutte quelle che le avevano precedute. Avevano una portentosa varietà di raffigurazione. Ogni minima variante nel punto di vista, nell’inquadratura o nella luce, ogni attimo che passava, ogni mutamento nel tono della stampa, creava uno sguardo nuovo. Mentre l'artista esperto sapeva disegnare una testa o una mano da una dozzina di prospettive diverse. Il fotografo scopriva che i gesti di una mano erano di una varietà infinita, e che il muro di una casa illuminato dal sole non era mai uguale a se stesso. Numerose di queste immagini erano per lo più senza forma e casuali, ma alcune riuscivano a mostrare una coerenza, anche nella loro stranezza. Certe nuove immagini erano meravigliose, e si rivelavano significative oltre i limiti delle intenzioni dei loro autori. Ma non era nuovo soltanto il modo in cui la fotografia descriveva le cose: erano nuovi anche gli oggetti che sceglieva di descrivere. I fotografi rappresentavano oggetti di ogni sorta, dimensione e forma. La pittura era difficile, costosa, preziosa, e documentava ciò che si sapeva essere importante. La fotografia era facile, economica, onnipresente, e documentava qualsiasi cosa: vetrine di negozi, biciclette, animali di ogni specie, locomotive a vapore e persone di strada. E queste cose banali, una volta rese oggettive e permanenti, immortalate in un'immagine, diventavano importanti. Alla fine del secolo, per la prima volta nella storia anche i poveri avevano modo di sapere quale volto avessero i loro antenati. Le 156 fotografie bicromatiche riprodotte ottimamente nell’opera sono state eseguite nel corso di circa 125 anni. Sono state scattate per ragioni disparate, da uomini mossi da intenzioni diverse e con diversi gradi di talento. In effetti, hanno ben poco in comune, se non il successo che hanno ottenuto e un linguaggio condiviso: queste immagini sono inequivocabilmente fotografie. La visione che hanno in comune non appartiene ad una teoria estetica, ma alla Fotografia stessa. I fotografi hanno scoperto il carattere di questa visione nel corso del loro lavoro, acquisendo una crescente consapevolezza del potenziale di cui la fotografia era dotata. Se è così, dovrebbe essere possibile considerare la storia del medium dal punto di vista della graduale presa di coscienza, da parte dei fotografi, dei caratteri e delle proprietà che apparivano connaturati al mezzo stesso. Il libro viene quindi ad esaminare in maniera esemplare i fondamenti di questo linguaggio fotografico in una racconto visivo strutturato in cinque capitoli. Gli argomenti vanno contemplati come aspetti inter-dipendenti di un singolo discorso, al fine di formulare un lessico e una prospettiva critica capace di rispondere più pienamente al fenomeno unico della Fotografia.


Charls Negrè: Henry Le Secq at Notre Dame Cathedral, Paris, 1851.

Il primo capitolo intitolato “La cosa in sé” cerca di far capire come una fotografia evoca la presenza tangibile della Realtà in modo più convincente di qualsiasi altro genere di immagine. Il suo utilizzo basilare e la sua ampia diffusione ne hanno fatto “un surrogato del soggetto stesso - una versione più semplice, più durevole, più nitidamente visibile del puro e semplice fatto”. La nostra fede nella verità di una fotografia poggia sulla convinzione che l'obiettivo sia imparziale, e disegni il soggetto così come è, senza nobilitarlo né immiserirlo. Può essere una fede ingenua e illusoria (infatti, sebbene sia l'obiettivo a disegnare il soggetto, è il fotografo che lo definisce), ma persiste tuttora.


Roger Fenton: The Valley of the Shadow of Death, Crimea 1855.

Quando il fotografo ebbe lasciato lo studio artistico, non gli fu più possibile copiare gli schemi dei pittori. Non poteva, ad esempio, diventare regista di una scena di battaglia dipingendo insieme elementi che provenivano da luoghi e tempi diversi, e neppure poteva risistemare le parti della sua immagine in modo da costruire un disegno che gli fosse più congeniale. Della realtà che aveva di fronte poteva soltanto scegliere i particolari che gli sembravano rilevanti, e con quelli comporre la sua fotografia. Se non poteva mostrare la battaglia, né raccontare la strategia bellica, né distinguere in essa i buoni dai cattivi, poteva altresì mostrare quel che per un pittore sarebbe stato un soggetto fin troppo comune: la strada deserta disseminata di palle di cannone, per esempio, oppure il fango rappreso sulle ruote di un cannone, dei volti umani anonimi, dei fucili appoggiati ad un muro, etc. Dei dettagli, dei particolari significativi che solo il suo intuito riusciva a cogliere. Il lavoro del fotografo incapace di essere narrativo, si rivolge al simbolo.


Robert Frank: US 90, Texas, 1955 from The Americans

Ciò che viene rappresentato in una fotografia è ciò che ha un fine. Allorchè una fotografia è ritagliata da un’inquadratura, il resto del mondo è scartato. La presenza virtuale del resto del mondo e la sua esclusione sono parimenti importanti e significativi all’esperienza visiva di una fotografia quanto ciò che essa presenta esplicitamente.


Otto Steinert: A Pedestrian, Paris, 1951.

Nel singolo segmento temporale isolato i fotografi hanno trovato una fonte inesauribile di opportunità. Temporalmente, l’atto fotografico interrompe, arresta, fissa, immobilizza, impadronendosi di un solo istante. La fotografia appare come un taglio spazio-temporale. Si può dire che il fotografo, all’estremo opposto del pittore, lavora con un bisturi affilatissimo, prelevando una fetta spazio-temporale di Reale. Un istante che viene eternizzato, perpetuato. Il tempo della fotografia non è più quello del Tempo reale ma rappresenta un passaggio irriducibile in una nuova dimensione, come se fossimo inghiottiti da un buco nero.


Photographer unknown: Walter Miller Shooting from Wool worth Building, 1912-13 New York.

Sulla chiarezza della fotografia è stato detto molto, mentre della sua oscurità è stato detto ben poco. Eppure è la fotografia ad averci insegnato a vedere le cose da un punto di vista inatteso, mostrandoci immagini che trasmettono il senso della scena mentre ne occultano il significato narrativo.


La fotografia ha esercitato una grande e inestimabile influenza sui pittori, scrittori, giornalisti e intellettuali di ogni sorta. Cosa strana, si tende più facilmente a dimenticare che la fotografia ha influenzato anche e soprattutto i fotografi. Non vi è dubbio che sono proprio le fotografie che appaiono in questa riuscitissima opera , scattate da grandi autori o da perfetti sconosciuti, a fare da maestre per quanti si sono serviti e si serviranno della macchina fotografica come artisti consapevoli. È artista chi cerca nuove immagini in cui ordinare il proprio senso della realtà. “Per un artista della fotografia il senso della realtà (da cui prende le mosse la sua immagine) e il senso del mestiere o della struttura (dove la sua immagine si completa) sono in gran parte doni anonimi della fotografia stessa, dei quali è impossibile rintracciare la fonte”. Il libro di Szarkowski spiega in maniera esemplare che la Storia della Fotografia non è tanto un viaggio quanto una crescita; ha un movimento centrifugo, anziché lineare e successivo. La Fotografia, e il nostro modo di intenderla, si va estendendo a partire da un centro; ha pervaso, per infusione, la nostra coscienza. “La fotografia è nata tutta intera, come un organismo”. La sua storia consiste nel percorso attraverso il quale ne facciamo la progressiva scoperta.

    John Szarkowski è fotografo e direttore emerito del dipartimento di Fotografia del Museum of Modern Art di New York. È autore di molti libri sulla fotografia, tra i quali Looking at Photographs e Photography Until Now.

Letto per voi da surgeon.

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