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Il ritratto: uomini, cani, gatti & Co.
Il ritratto: uomini, cani, gatti & Co.

Se è molto facile intuire il perchè la foto fatta ad una statua non è e non sarà mai un “ritratto”, molto più difficile è cercare di stabilire quell’ambito entro cui la fotografia di un soggetto umano o animale (e con molte più difficoltà come vedremo nel secondo caso) si può definire un “ritratto” in senso compiuto.
Nel caso di una statua infatti, per quanto questa possa rappresentare in modo più o meno realistico le fattezze di un corpo o i tratti di un viso, manca il centro di interesse principale del “ritratto” che è l’identità del soggetto, sia esso uomo o animale. La statua ad esempio è in sé un “ritratto”, ma lo scatto che noi faremo di essa è solo una pallida trasposizione del ritratto fatto dallo scultore.
Possiamo, attraverso lo scatto, interpretare l’ “oggetto” statua nella sua complessità di volume, di forma e di valori estetici, ma non la persona o l’animale, non la sua identità, non, in ultima analisi, la sua anima.

Sgombrato il campo dunque da bambole, manichini o statue, restano come potenziali soggetti del ritratto esclusivamente uomini ed animali.

Ma, posta questa condizione, non possiamo certo affermare che tutti gli scatti fatti a persone, gatti o canarini siano dei ritratti, esattamente come la foto fatta per strada non è detto che sia necessariamente una “fotografia street”. Non basta cioè che lo scatto ci restituisca l’immagine di una persona o di un animale per dirsi un ritratto compiuto.

Ma allora: cosa è che fa la differenza?

Perché si compia quel salto che fa essere una fotografia un “ritratto” è necessario prima di tutto che questa si faccia “racconto”. E’ necessario cioè che la fotografia “racconti”, restituisca una storia il cui cuore narrativo altro non è che l’individualità del soggetto. Un racconto cioè che il fotografo imbastisce e restituisce del soggetto, pensando a lui come “persona”, nella sua identità di corpo e di spirito.
Quello che in ultima analisi fa il ritratto è scandagliare la persona e sarà il suo universo personale, la sua identità, tutto quello che in definitiva la fa essere “unica” in tutte le sfumature del suo essere fisico ed emozionale a diventare il vero centro di interesse dello scatto.

Ma attenzione: abbiamo detto “racconto”, non semplice “cronaca”. E come in tutti i racconti che si rispettino non può che nascondersi una qualche intonazione autobiografica. Perchè in effetti se è vero che il ritratto sta nel particolare racconto che il fotografo fa dell’unicità e dell’individualità del soggetto, è vero che questo racconto è il risultato del suo modo di sentire ed interpretare chi gli sta di fronte. In altri termini nel ritratto non c’è soltanto il soggetto, c’è anche il fotografo che concretizza un’immagine ed una soltanto, sulla base di un personale “giudizio” che egli formula del soggetto stesso. Quanto questo meccanismo sia più o meno consapevole e se vi sia o no la volontà di espressione di questo giudizio, è tutt’altro discorso ed esula dalla poetica del ritratto.

L’importante è invece sottolineare che riusciremo ad eseguire un ritratto nel momento in cui avremo formulato dentro di noi un giudizio sulla persona che inquadriamo all’interno del mirino ed è da questo che discenderà una serie di conseguenze sul piano tecnico che vanno dalla scelta dell’inquadratura, alla composizione, al punto di ripresa o alla gestione della profondità di campo e che saranno gli strumenti del nostro “racconto”. E’ chiaro che nella formulazione di questo giudizio mettiamo in campo noi stessi e c’è insomma ben più di una traccia di “autoritratto” nel “ritratto” che facciamo di qualunque altra persona. Ci sono il soggetto, la sua identità, il suo universo: Ma c’è anche il fotografo con il suo personale modo di interpretarlo quell’universo (in altre parole la sua idea, la sua opinione, il suo giudizio) attraverso il suo sentire, la sua esperienza di vita, il suo bagaglio umano.

Le due cose non sono scindibili ma convergono entrambe nel farsi del “ritratto” che è dunque il risultato di un incontro tra l’universo del fotografo e quello del soggetto.

E questo “incontro” sostanzialmente il ritratto esprime.

Facciamo qualche esempio.

In questo splendido ritratto di Aldo Feroce è la fermezza consapevole dello sguardo della bambina il nucleo emozionale dello scatto e del suo racconto. Ma quello che vediamo è la sintesi di un processo di esplorazione che l’autore compie nell’universo del soggetto e che lo porta a coglierne alcune sfumature della propria identità. E’ a quel punto che il ritratto si “fa” attraverso una serie di strumenti che rispecchiano e sintetizzano il “giudizio” che l’autore si è formato del soggetto. Guardate l’angolo del punto di ripresa: è alto, quasi a restituirci la nostra prospettiva da adulti, e si combina a quello sguardo di grande intensità che dal basso pare sfidarci. Il risultato sono una fierezza, una fermezza consapevole, una energia che ha il sapore della dignità e dell’orgoglio dell’anima, tanto più forte e tanto più intenso quanto più lo riferiamo a quell’universo infantile che dal basso sostiene con forza il nostro sguardo. E’ questo quel “giudizio” da parte dell’autore di cui parlavamo e che riconosciamo come vero motore del processo creativo del ritratto. Anche l’inquadratura appare diretta conseguenza del modo di guardare da parte di Aldo a questo universo infantile. L’inquadratura stringe sul viso, incurante del taglio del braccio a destra, tesa a sottolineare quel gesto deciso, quasi violento, della mano che stringe le ciocche gocciolanti dei capelli, scopre la fronte con orgoglio e amplifica la fermezza che s’emana dalla nerezza profonda come un abisso di quegli splendidi occhi.
Punto di ripresa, inquadratura, composizione all’interno del fotogramma (si guardi ad esempio come l’impaginato figurativo si costruisca sulla diagonale lungo la quale sono disposti gli elementi forti del ritratto: il braccio in basso a sinistra, la curva della spalla, gli occhi, la mano) sono dunque gli elementi costitutivi di un racconto che nasce direttamente dall’interpretazione che l’autore fa dell’universo personale del soggetto.

Stesso meccanismo riconosciamo seppur con risultati diversi in questo magnifico ritratto di Topo Ridens. Qui l’indagine che l’autore compie sulla psicologia del soggetto si riflette nel particolare taglio dell’inquadratura tesa a mettere in evidenza la trasparenza dello sguardo che pare riflettere una luce profonda, che riverbera dall’interno e ci restituisce tutto l’incanto, la magia, l'impalpabile dolcezza di quell’universo infantile. Il “giudizio” dell’autore sta qui tutto nel raccogliere e intuire il senso di quel lieve scivolare in sé dell’espressione del soggetto, tanto da stringere sul viso con il margine a sinistra di una inquadratura che coraggiosamente sbilancia il viso. Ma lo fa con il senso di una carezza, perché più forte si faccia sentire l’inclinazione del viso che con leggerezza piega di lato non appena lo sguardo fugge lontano. Ed è così che commuove ed incanta anche noi l’espressione assorta del piccolo, sospesa sull’orizzonte di un istante di riflessione matura e l’intensità di quel suo traguardare, come in un abbandono di struggente dolcezza e consapevolezza. In quell’occhio, nella sua trasparenza che pare rilucere di un bagliore interno, sta tutto il senso del ritratto. La scelta di collocarlo all’incrocio tra il terzo a sinistra e quello in alto, fa in modo che tutta la dinamica espressiva dello scatto ruoti, converga e si concentri nella profondità di quello sguardo. Giusto allora il taglio in alto sulla fronte e soprattutto quello a destra che s’allontana lasciando scorrere aria e luce sul viso. Ancora una volta dunque, composizione, inquadratura, punto di ripresa, veicolano un'idea, un giudizio prima ancora di essere semplici strumenti attraverso cui restituire una immagine.

Ma le considerazioni fin qui fatte, continuano a restare tali anche nel caso del ritratto ad un animale?

Assolutamente sì.

Ma anche in questo caso, alla base del ritratto non c’è la semplice restituzione di un’immagine, non basta che lo scatto “documenti” le fattezze fisiche di un animale, come non bastava nel caso di una persona. Serve il “racconto”. Serve cioè che il fotografo riesca a svelarci alcuni aspetti caratterizzanti di quell’animale che non lo facciano vedere solo come “un” cane o “un” gatto, ma come “quel” cane, ”quel” gatto.

Anche nel caso di foto fatte agli animali, il ritratto deve potersi “fare” attraverso il racconto di una unicità. Ed anche in questo caso il “racconto” è il risultato del modo che ha il fotografo di sentire ed interpretare chi gli sta di fronte, anche in questo caso il motore del processo creativo è sempre il suo “giudizio”, perchè è in questo che si “sintetizza” la sua personale visione dell’unicità del soggetto.

E’ chiaro che quel che complica non poco le cose è che mentre nel caso di un ritratto ad una persona gli stessi tratti somatici, i lineamenti del viso e le fattezze del corpo sono comunque caratterizzanti di una identità figurativa, nel caso dei ritratti ad un animale dove le caratteristiche fisiche sono meno determinanti nel definirne l’unicità, si deve compiere uno sforzo maggiore per cogliere quelle sfumature capaci di rivelarcene il carattere.

Prendiamo il caso di questo scatto.

Non c’è dubbio che il gatto sia qui il centro di interesse dello scatto: la composizione, magari eccessivamente centrale, e la stessa inquadratura stretta rivelano l’intenzione del fotografo di concentrare l’attenzione sul soggetto. Ma in fondo a parte restituirci l’immagine di un gatto, questo scatto non riesce a rivelarcene un qualche aspetto più o meno caratterizzante, una qualche sfumatura della sua "personalità", la sua identità insomma. Non c’è in definitiva un racconto. E non c’è un racconto perchè non c’è, o meglio non riesce a rivelarsi del tutto, un’idea, un giudizio che il fotografo ha di quel gatto, tale da trasformare l’immagine di “un” gatto qualunque nell’immagine di “quel” particolare gatto.







Guardate invece il ritratto che Cyano fa del suo gatto.

Sì, indubbiamente è e resta l’immagine di un gatto ma è anche e soprattutto il ritratto del suo gatto, che ci viene “raccontato” come fosse il vero padrone di casa. Perché è così che l’autore lo vede e questo è il suo “giudizio”. E padrone di casa lo sembra davvero nella posa, nell’espressione rigorosa ed intrisa di autorevolezza, nell’indifferenza di quello sguardo tagliente che ci scivola addosso ed oltre, quasi con sufficienza.
Lo scatto si fa ritratto nel momento in cui l’autore coglie quel particolare atteggiamento da “padrone di casa” del suo gatto, assolutamente caratterizzante, ed utilizza strumenti fotografici come inquadratura e soprattutto punto di ripresa per raccontarci quel particolare aspetto. Il punto di ripresa è studiatamente basso con la fotocamera al livello del suolo conferendo notevole presenza scenica al soggetto. Tutto il palcoscenico è suo, di questo magnifico esemplare che sembra troneggiare dall’alto e che non può non conquistare ammirazione e rispetto. Bellissimo lo scenario, essenziale ad inquadrare i contorni di un ambiente domestico: una sedia, della biancheria, una giacca alla gruccia e sullo sfondo il ritmo uniforme delle ante dell’armadio che fanno da quinta silenziosa. Ed anche questo fa parte integrante del racconto.







Il taglio quadrato, la composizione diagonale e l’inquadratura stretta sono invece gli strumenti utilizzati dalla nostra Sweet in un ritratto capace di restituirci un momento di grande espressività da parte di questo magnifico cane.

Bellissimo il suo guardare da sotto in su e di lato: c’è una dolcezza infinita in questo sguardo, un’attenzione profonda che davvero si fanno cuore narrativo dello scatto, tanto da fare vibrare note di forte suggestione evocativa. Quello sguardo così dolce, intenso, diretto è capace di rievocare la figura di una persona molto cara all’animale, quasi fosse tutto il suo universo ed è questo lo spessore emozionale che l’autrice coglie del soggetto facendone nucleo narrativo del ritratto. A partire quindi, ancora una volta, dalla formulazione di un “giudizio” dalla quale discendono una serie di scelte (più o meno consapevoli) come l’adozione del taglio quadrato o la costruzione diagonale. Tutta la dinamica espressiva del ritratto infatti si consuma nella torsione che, attraverso la gestualità diagonale, spinge lo sguardo dall’angolo in basso a sinistra a quello opposto e da qui oltre il margine del fotogramma, verso un centro di interesse fuori campo, forse il padrone stesso.

In definitiva, quel che muove il ritratto è prima di tutto una presa di posizione da parte del fotografo nei confronti del soggetto, sia esso umano o animale. Sarà questa presa di posizione, o come abbiamo più volte detto il suo “giudizio” il vero contenuto di quel racconto che il ritratto costruisce sull’identità del soggetto. Per questo “attenzione” e “partecipazione” sono presupposti indispensabili per il ritratto, come aspetti di una stessa capacità di guardare con il cuore e non soltanto con gli occhi.


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