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		| Daniele Nesi non più registrato
 
 
 Iscritto: 19 Gen 2005
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				|  Inviato: Dom 20 Nov, 2011 6:44 pm    Oggetto: parlare di composizione fotografica... |   |  
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				| un pò lungo ma sicuramente di aiuto a chi comincia 
 Michele Vacchiano
 
 Parlare di composizione fotografica può essere facile o difficile. E' facile se ci si
 accontenta delle solite nozioncine imparaticce che gli autori di molti manuali
 copiano l'uno dall'altro; è difficile se si parte da un punto di vista "scientifico", cioè
 semiologico, e si cerca di analizzare compiutamente i fenomeni della
 comunicazione visiva.
 In questo articolo, già di per sé lungo, cercheremo di evitare un linguaggio da
 addetti ai lavori, astenendoci dall'affrontare il problema con la profondità che
 meriterebbe. In altre parole, salteremo a piè pari le premesse teoriche per arrivare
 subito alla loro applicazione pratica. Chi tuttavia volesse approfondire l'argomento
 potrà trovarne un approccio divulgativo alla pagina "La luce, il segno", sul mio sito
 www.michelevacchiano.com, ed un approccio decisamente più specialistico
 consultando il mio saggio L'ordine apparente ("Quaderni di ricerche semiotiche", n.
 4, febbraio 1992).
 Tuttavia, per evitare di dare per scontati i concetti preliminari, col rischio di rendere
 il tutto incomprensibile, procederemo per gradi e seguiremo la genesi e la
 formazione dell'opera fotografica fin da quando essa inizia a prendere forma nella
 mente dell'autore. Possiamo in questo modo individuare una decina di punti
 chiave e svilupparli analizzandoli ad uno ad uno.
 Avere qualcosa da dire
 Non sembri inutile o pedante questo primo punto: troppe fotografie (non solo di
 dilettanti) inducono il destinatario a chiedersi perché esse siano state scattate.
 L'assenza di un soggetto e di un qualsiasi punto di interesse fa sì che certe
 immagini siano ridotte a puro rumore non strutturato: il disordine regna sovrano, né
 esiste un codice riconoscibile capace di affidare un qualche significato alle figure.
 Questo accade, il più delle volte, perché un soggetto che sembrava interessante e
 fotogenico all'osservazione dal vivo risulta poi del tutto insignificante una volta
 fissato sulla pellicola. Non ci si è resi conto che l'occhio (o meglio il cervello)
 umano e la fotocamera "vedono" la realtà in modo assai diverso. La prima
 condizione indispensabile è quindi...
 Saper "vedere fotograficamente"
 La felice espressione coniata da Andreas Feininger è talmente appropriata da aver
 meritato di entrare definitivamente nel lessico fotografico. Vedere fotograficamente
 significa innanzitutto rendersi conto che il medium fotografico e il nostro cervello
 vedono la realtà in maniera del tutto differente, al punto che scene
 apparentemente gradevoli se osservate direttamente appaiono poi prive di
 significato una volta tradotte in comunicazione visiva su un supporto
 bidimensionale. Ma soprattutto vedere fotograficamente significa essere in grado
 di cogliere, nel disordine del reale, gli elementi essenziali di una composizione
 fotografica. Purtroppo non esistono regole o procedure che permettano di affinare
 il proprio "occhio fotografico"; del resto, "se si potessero comporre dei quadri in
 base a delle norme, Tiziano e Veronese sarebbero gente qualunque" (Ruskin).
 È tuttavia possibile imparare a prestare sempre maggiore attenzione non tanto
 all'insieme della scena, quanto ai singoli particolari, esplorando minuziosamente
 ogni angolo dell'inquadratura. Fissare la macchina su un cavalletto aiuta, almeno
 per le prime volte, ma soprattutto aiuta imparare a fotografare con una macchina di
 grande formato. La complessità delle operazioni necessarie per fotografare
 costringe a concentrarsi sulla qualità di immagine e sulla composizione, più che
 non sulle suggestioni extrafotografiche le quali - spesso - invogliano il dilettante a
 catturare un momento magari emotivamente connotato, ma di per sé incapace di
 venire tradotto dalla pura e astratta bidimensionalità della fotografia.
 L'immagine che si forma sul vetro smerigliato appare capovolta e con i lati invertiti,
 accentuando le linee, le forme, i valori tonali e i colori in una limpida astrattezza
 capace di rendere chiari e immediatamente percepibili i puri parametri fotografici,
 senza le distrazioni derivanti dalla visione diretta del soggetto. L'ampia area di
 visione (10x12 cm o superiore) invita l'occhio ad esplorare l'intera composizione,
 notando ogni minimo particolare, ogni scarto nei valori tonali. Il mondo che sta al di
 fuori della composizione (quel mondo che non compare nell'inquadratura ma che
 spesso spinge il dilettante a scattare una fotografia che si rivelerà impietosamente
 banale) è rigidamente tagliato fuori: tutto ciò che esiste è quell'insieme astratto di
 linee e toni sul quale lavorare con geometrica precisione. Se riusciremo ad
 applicare anche alla reflex il modo di procedere proprio del grande formato
 (questo significa rinunciare all'istantanea rubata e fermarsi a pensare a quello che
 si sta facendo), allora avremo imparato a vedere fotograficamente.
 La considerazione funzionale del soggetto
 Una volta inquadrata mentalmente la "fetta" di realtà che si vuole tradurre in
 comunicazione visiva, è necessario isolarvi gli elementi ai quali attribuire valore di
 segno. Soprattutto si sceglierà l'elemento principale cui affidare il compito di farsi
 portatore dell'informazione, e cioè il soggetto principale. Questo andrà considerato
 come funzionale nei confronti del messaggio, e pertanto trattato in modo da
 caricare su di esso tutta la forza della comunicazione.
 L'atteggiamento col quale il fotografo si avvicina al soggetto è, in quest'ottica,
 fondamentale: la riuscita della fotografia dipende in prima analisi dall'approccio
 preliminare, dal rapporto - emotivo, intellettivo, culturale - che l'emittente è riuscito
 a stabilire con la realtà che intende tradurre. Un rapporto che richiede un esame
 attento, un'analisi visiva seria e meditata. I turisti che scattano foto ricordo
 dall'autobus in corsa sono, per l'appunto, turisti e non fotografi. Il fotografo, al
 contrario, pone particolare attenzione non soltanto all'inquadratura, al gioco delle
 luci e all'uso delle focali più adatte, ma anche a tutti quegli elementi che
 concorreranno alla composizione finale (l'"approccio globale" di Feininger).
 Considerare funzionalmente il soggetto significa in definitiva interrogarsi sulla sua
 efficacia informativa ai fini del messaggio, un'efficacia correlata non soltanto al
 soggetto in quanto tale, ma anche a fattori ad esso estranei, quali ad esempio il
 tipo di pubblico al quale il messaggio è destinato e - di conseguenza -
 l'atteggiamento che questo pubblico potrebbe manifestare nei confronti della
 fotografia. Ma è anche essenziale che l'emittente analizzi il proprio personale
 rapporto emotivo con il soggetto: immagini che per noi sono emotivamente
 connotate possono risultare totalmente prive di significato per il destinatario. Le
 fotografie dei nostri figli sono per noi belle ed emozionanti, perché siamo abituati a
 guardarle con l'occhio acritico del genitore (il quale oltretutto ci induce a riversare
 sull'immagine i contenuti emozionali che assegnamo agli originali), ma di solito
 ben poche di esse sono ritenute belle e gradevoli da uno spettatore emotivamente
 non coinvolto. Lo stesso discorso vale per un paesaggio al quale ci legano
 connotazioni di carattere extrafotografico: un ricordo, un'allusione, un'analogia; e
 ancora i suoni, i profumi, lo stato d'animo del momento. Sarà dunque necessario
 che il fotografo riesca a distinguere nettamente fra le caratteristiche compositive
 proprie del soggetto e le connotazioni di carattere personale e soggettivo. Se,
 compiuta questa operazione, riterrà ancora possibile riuscire a trasmettere la sua
 personale visione del soggetto, sarà in grado di farlo con le idee chiare e con la
 consapevolezza dei propri scopi.
 L'approccio al soggetto
 Sul rapporto che lega il fotografo al soggetto ci sarebbe molto da dire, soprattutto
 se si considera come la maggior parte dei fotoamatori tende a porsi nei confronti di
 ciò che fotografa. Non occorre accompagnare le comitive di visitatori lungo i
 sentieri di un parco nazionale per accorgersi di quanta cultura predatoria inquini
 l'attività fotografica: del resto abbiamo già parlato della caccia fotografica come
 sublimazione della caccia cruenta, evidenziando quanto un simile atteggiamento
 risulti nocivo per una considerazione della fotografia come fatto comunicativo. In
 realtà, se l'approccio al soggetto non è mistificato né da superficiali e razzistici
 paragoni con la caccia né dall'antropomorfizzazione cui ci hanno abituati i
 documentari di Walt Disney, il fotografo si trova ad instaurare con esso un rapporto
 dialettico, che lo costringe a "dialogare" con un'altra vita, con un'altra esperienza.
 Non è più l'animale selvatico da temere, da sfruttare o da uccidere per
 divertimento, ma una manifestazione della natura per cui provare rispetto, a cui
 chiedere di avere fiducia, dopo secoli di caccia e sfruttamento, nella nostra
 essenza umana.
 La fatica dell'avvicinamento e la pazienza dell'attesa, lungi dall'aumentare il valore
 della fotografia (il cui dovere è quello di parlare da sola, grazie alla pregnanza
 comunicativa delle immagini) predispongono l'animo all'intensa emozione
 dell'incontro. Si instaura così un colloquio senza inutili parole, fino alla totale
 identificazione (vorrei usare "compassione", se fosse ancora valida la sua
 accezione etimologica) del fotografo con il soggetto. Un soggetto che non soltanto
 dev'essere conosciuto per venire fotografato, ma che essendo fotografato viene
 conosciuto e tradotto in comunicazione visiva. Quei brevi istanti durante i quali il
 fotografo ed il soggetto sono una cosa sola, durante i quali la mente e il mondo, chi
 osserva e la realtà osservata, si identificano, possono essere paragonati soltanto
 alla profonda concentrazione degli arcieri zen, per i quali la mente, la freccia e il
 bersaglio divengono - durante un solo attimo - un'unica realtà. Sono questi
 momenti a fare della fotografia (e della fotografia naturalistica in particolare)
 un'attività definitiva e coinvolgente, dalla quale diventa impossibile recedere.
 Un altro esempio di ciò che intendiamo per "corretto approccio al soggetto" è
 costituito dalla fotografia di architettura. Contrariamente al dilettante, che quando si
 trova in una città d'arte fotografa di tutto e in modo convulso, senza curarsi di nulla
 se non di portare a casa qualche ricordo visivo, il professionista considera
 innanzitutto che ogni edificio costruito dall'uomo ha una sua funzione specifica:
 abitare, lavorare, adorare la divinità, esercitare il potere, gestire il tempo libero. E'
 quindi essenziale che il fotografo sappia innanzitutto come mettere in luce queste
 caratteristiche. L'edificio o il monumento vanno studiati sotto differenti angolazioni,
 ma soprattutto sotto diverse luci: gli architetti, infatti, decisero di edificare in un certo
 luogo (dandogli un preciso orientamento) un palazzo caratterizzato da una ben
 precisa forma e da una ben precisa struttura superficiale proprio perché
 conoscevano il percorso del sole durante la giornata, sapevano sfruttare i giochi di
 luce e prevederne gli effetti sui volumi architettonici. Fotografare l'architettura non è
 come fotografare il paesaggio: non si tratta di interpretare e codificare una realtà
 naturale, e quindi di per se stessa disordinata, ma di reinterpretare un codice
 iconico. Il fotografo di architettura studia pertanto la struttura dell'edificio e la sua
 collocazione nell'ambiente, alla ricerca del codice utilizzato dall'architetto per
 comunicare attraverso la sua opera. Dopo che, come destinatario, il fotografo avrà
 decodificato correttamente il messaggio architettonico, allora - e solo allora - potrà
 mettersi nella condizione di emittente per tradurre (transcodificare) questo
 messaggio in una comunicazione di tipo fotografico. Particolare attenzione va
 posta sull'ambiente nel quale l'edificio è immerso: se correttamente conservato (il
 discorso non vale per le cappelle romaniche soffocate tra i grattacieli) esso può
 dirci molto sull'opera dell'architetto. Andrea Palladio sapeva bene che le linee
 classicheggianti delle sua ville sul Brenta avrebbero tratto forza ed efficacia dal
 contrasto con la dolce campagna circostante: si tratta di scelte espressive che
 costituiscono parte integrante del messaggio architettonico e vanno pertanto
 considerate con attenzione.
 Un ultimo esempio riguardante l'approccio al soggetto può essere fatto citando un
 altro genere fotografico assai praticato anche a livello amatoriale: il ritratto. Qui
 l'atteggiamento predatorio del fotografo affamato di immagini tocca i suoi livelli più
 inquietanti. Chi è già stato al Photoshow non ha potuto non notare quanto i
 fotoamatori maschi si affannino ad immortalare qualunque presenza femminile si
 frapponga fra loro e lo sfondo. Non soltanto vengono bersagliate di flash e zoom le
 modelle che si agitano a ritmo di rock nei vari stand a tale scopo allestiti, ma
 vengono anche fotografate, più o meno di nascosto, le signorine che distribuiscono
 materiale illustrativo, le espositrici delle varie ditte, le impiegate dell'ufficio
 informazioni, senza contare le persone che fanno parte del pubblico, purché
 ragionevolmente giovani e di sesso opposto. Immagini rubate in mezzo alla folla
 che con il ritratto - e ancor più con il glamour - non hanno nulla a che vedere. Si
 pensi invece per un momento a quanto lavoro ci sia dietro a un ritratto (o a una
 fotografia di moda o di nudo) eseguito da un professionista, e a quale rapporto
 leghi quest'ultimo con la modella. Un rapporto mistificato da pregiudizi ignoranti o
 mitizzato da una pubblicistica idiota (di cui il mensile per adolescenti "Top models"
 costituì l'esempio più illustre), ma fatto in realtà di professionalità e competenza, di
 un feeling che va ben al di là dei facili ammiccamenti (tanto stupidi quanto
 infondati), fatto di comprensione, di stima reciproca e di fiducia professionale.
 Ecco, abbiamo citato tre generi (la fotografia della natura, la fotografia
 architettonica, il ritratto) come esempio di ciò che si intende con l'espressione
 "approccio al soggetto". Soltanto se questo rapporto iniziale sarà impostato
 correttamente diventerà possibile, per il fotografo, trattare il suo soggetto in modo
 tale da farne il portatore dell'informazione.
 Il rapporto funzionale fra soggetto e sfondo
 Un oggetto viene percepito tanto più chiaramente dall'osservatore quanto più è
 messo in risalto rispetto all'ambiente che lo circonda. In fotografia l'oggetto della
 percezione è il soggetto principale, mentre l'ambiente circostante è lo sfondo: Il
 soggetto può essere costituito da una figura singola, ma anche da un gruppo di
 figure simili o correlate fra loro (che la nostra capacità interpretativa congloba in
 una figura unitaria), o ancora da un insieme di elementi riuniti a formare un centro
 di interesse. Il soggetto può anche occupare l'intero fotogramma: in questo caso
 manca lo sfondo o - se si preferisce - soggetto e sfondo coincidono. Per quanto
 riguarda lo sfondo, è importante sottolineare come per "sfondo" si intenda tutto ciò
 che circonda il soggetto, il suo ambiente, e non esclusivamente ciò che gli sta
 dietro. Il nostro sistema percettivo non è capace di leggere contemporaneamente
 figura e sfondo, come dimostrano le figure di Rubin: l'attenzione passa
 rapidamente e in tempi successivi dall'uno all'altro elemento. Ne consegue che
 quanto più netta ed univoca risulta essere la distinzione tra soggetto e sfondo tanto
 più rapida sarà la decodificazione del messaggio visivo. Inoltre lo sguardo
 dell'osservatore percorre l'immagine prima ricomponendola secondo le sue linee
 essenziali, poi esplorandola con precisione crescente. Quanto maggiore è la
 complessità dell'immagine, tanto più lungo sarà il tempo necessario ad osservare
 ed elaborare le informazioni in essa contenute; al contrario le immagini semplici ed
 essenziali vengono recepite ed interpretate con maggiore immediatezza. I
 particolari inutili, il cromatismo eccessivo, così come la mancanza di nitidezza e
 l'insufficiente contrasto, disturbano la composizione per eccesso di rumore, mentre
 la concisione e la semplicità delle linee e dei toni aggiungono pregnanza al
 soggetto. E se il dilettante fotografa un brutto sfondo perché "era lì", il fotografo
 attento cerca di eliminarlo o trasformarlo. I mezzi sono già noti: innanzitutto la
 scelta della giusta inquadratura (talvolta basta spostarsi di pochi centimetri per
 scoprire un punto di vista migliore); poi la scelta della focale più adeguata (che
 consente di giocare con gli effetti di compressione o allontanamento dei piani
 prospettici); infine la scelta della giusta illuminazione e della corretta esposizione.
 A questo proposito mi preme sottolineare il fatto che - contrariamente a quanto la
 manualistica destinata ai principianti frettolosamente insegna - la "corretta
 esposizione", intesa in senso assoluto, non esiste. Questo perché lo stesso
 soggetto può assumere significati diversi a seconda di come viene "letto",
 interpretato e quindi esposto. Ne consegue che la coppia tempo-diaframma decisa
 dall'esposimetro deve sempre (sempre, non solo in caso di controluce o di
 condizioni difficili) essere sottoposta a revisione e adattata alle esigenze di
 comunicazione dell'emittente. Il concetto fondamentale, che solitamente sfugge al
 principiante, è che la quantità di luce che giunge alla pellicola non costituisce un
 parametro assoluto, dipendente in maniera meccanica dalla quantità di luce
 riflessa dal soggetto (e pertanto misurabile), ma è una scelta espressiva. E in
 quanto tale non si misura. Si decide. La necessità di eliminare dall'inquadratura gli
 elementi superflui per ridurre il rumore sta alla base della scelta fra colore e bianco
 e nero. La presenza o l'assenza del colore rivestono in fotografia un ben preciso
 valore semantico: la scelta se fotografare a colori o in bianco e nero va effettuata in
 funzione del soggetto e del messaggio, perché i colori significano qualcosa.
 Decidere per il bianco e nero significa costringere l'emittente a codificare
 l'immagine mettendo in evidenza il grafismo della composizione, la luce, le forme e
 i contrasti tonali. Il destinatario, a sua volta, decodificherà il messaggio sapendo
 che questi sono gli elementi a cui dare importanza. E' quindi necessario chiedersi
 se l'uso del colore sarà in grado di aggiungere nuovi significati all'immagine. Se la
 risposta sarà negativa, esso andrà trattato come rumore e per ciò stesso eliminato.
 Una volta eliminati dall'inquadratura tutti gli elementi che possono costituire
 rumore e abbassare l'efficacia del messaggio, rimarranno comunque alcuni
 elementi di sfondo che potranno essere sfruttati creativamente per invitare il
 destinatario a porre la sua attenzione sul soggetto principale. Il rapporto fra
 soggetto e sfondo diventa così un rapporto funzionale, dato che permette la
 strutturazione di un messaggio che contiene in se stesso le "istruzioni" per la sua
 corretta decodificazione. La costruzione grafica dei rapporti fra soggetto e sfondo
 prende il nome di composizione.
 Significati, scopi e limiti della composizione
 "Composizione" è il modo in cui il fotografo tratta il soggetto, correlandolo con gli
 altri elementi dell'inquadratura. Quello che è importante sottolineare è che le
 cosiddette "regole" della composizione non possono né devono rivestire alcun
 valore prescrittivo o normativo. E questo con buona pace di una certa manualistica
 destinata ai dilettanti, la quale affida alle regole della composizione un'importanza
 pari a quella attribuita dalle vecchie grammatiche normative alle regole del bello
 scrivere. Ma come i grandi scrittori sanno creare un capolavoro anche (e in certa
 misura, proprio) contravvenendo alla sintassi, se (e soltanto se) questo si rivela
 necessario alle loro esigenze espressive, così anche il fotografo - come il pittore
 prima di lui - non dovrà considerare l'incrocio dei terzi e le linee di fuga come leggi
 inderogabili: in realtà non si tratta altro che di elementi codificati capaci di rendere
 più agevole la strutturazione del messaggio e - per il destinatario - la sua
 decodificazione. Il fatto che la prospettiva lineare "conduca lo sguardo" (vedremo
 più avanti che cosa succede realmente) verso lo sfondo, o che gli elementi posti
 all'incrocio dei terzi acquistino pregnanza, non deriva dalla volontà di imperio di
 una qualche auctoritas riconosciuta, ma da un'abitudine percettiva consolidata da
 secoli di codice pittorico. Al punto che parlando di regole della composizione
 dovremmo considerarle più come la constatazione di abitudini percettive che come
 norme. Si tratta insomma di elementi del codice che il fotografo utilizzerà come un
 mezzo capace di consentirgli una strutturazione del messaggio aderente alla
 propria visione del mondo. Che è quello che il destinatario vuole poter percepire
 osservando l'opera.
 L'organizzazione dello spazio
 Il primo elemento utile a dare risalto al soggetto principale rapportandolo
 graficamente con lo sfondo è l'organizzazione dello spazio del fotogramma. Per
 quanto poco sovente ci si pensi, tutte le informazioni che una fotografia trasmette
 sono contenute in uno spazio fisico ben delimitato e definito a priori: il fotogramma
 non è una semplice cornice entro cui far entrare alla bell'e meglio una serie di
 figure, al contrario, si tratta di una ben precisa figura geometrica (un quadrato,
 oppure un rettangolo di differenti proporzioni) in cui andranno inscritte
 composizioni che - per quanto complesse - saranno anch'esse riconducibili a linee
 e figure note. Ne consegue che il formato del fotogramma e la sua disposizione
 rispetto all'osservatore influenzano la (e sono influenzati dalla) composizione.
 Tutto ciò deve indurre il fotografo ad effettuare una scelta ragionata, che consideri
 il formato del fotogramma e il suo orientamento nello spazio in funzione della
 composizione, la quale sarà a sua volta condizionata - e in certo qual modo
 limitata - dal quadrilatero entro il quale viene inscritta. Il formato quadrato permette,
 in genere, di curare con più attenzione la disposizione degli elementi nello spazio.
 Coloro che considerano la composizione come un insieme di regole prescrittive
 ritengono che il formato quadrato debba essere utilizzato prevalentemente per
 composizioni statiche, poiché pensano alla perfetta inscrivibilità nel quadrato della
 più statica e simmetrica delle figura geometriche: il cerchio.
 In realtà il formato quadrato consente la creazione di immagini particolarmente
 equilibrate (grazie all'uguaglianza dei lati) e basate prevalentemente
 sull'alternanza degli andamenti orizzontale/verticale. Inoltre, con il suo rapporto tra
 i lati di 1:1, permette di giocare con le forme e di concentrare l'inquadratura.
 Secondo alcuni fotografi questo formato inusuale permette di giocare
 sull'esclusione, cioè di "tagliare via" parte della scena mettendo in risalto ciò che
 effettivamente va visto. Abituato al formato rettangolare, lo spettatore che osserva
 una fotografia quadrata avverte che "ne manca un pezzo", come se una violenta
 sforbiciata avesse eliminato un particolare superfluo, costringendo chi guarda a
 concentrare l'attenzione, a osservare la scena attraverso una cornice più stretta di
 quanto vorrebbe. Al contrario, il formato rettangolare viene solitamente ritenuto più
 idoneo a contenere immagini "mosse" e dall'andamento dinamico, soprattutto se il
 fotogramma ha per base il suo lato più corto (cioè se la fotografia è scattata in
 verticale).
 Al fotogramma orientato orizzontalmente si riconosce invece la capacità di rendere
 efficacemente l'idea della quiete, della solennità e della grandiosità del paesaggio,
 grazie all'esaltazione delle linee orizzontali. Anche se c'è del buono in queste
 norme (come già sappiamo, esse non fanno che proporre come obbligatorio un
 codice rappresentativo a cui secoli di pittura ci hanno abituati), esse tendono a
 legare ogni formato ad una sua funzione fissa e immutabile, che rischia di
 ingabbiare entro schemi troppo rigidi la creatività del fotografo. Sarebbe invece
 importante rendersi conto che la figura geometrica entro la quale inscriviamo la
 composizione influenza in maniera drastica e peculiare l'andamento geometrico e i
 rapporti grafici dell'immagine. Inoltre, volendo approfondire, diremo che parlare
 genericamente di "formato rettangolare" rischia di apparire superficiale. Sappiamo
 infatti che esistono diversi formati, caratterizzati da differenti proporzioni fra i lati.
 Il formato 24x36 mm, diffuso specialmente fra gli amatori, così come il formato 6x9
 cm, sono caratterizzati da un rapporto fra il lato minore e il lato maggiore di 2 a 3. Il
 rapporto è pari a 1,5 e si avvicina alle proporzioni del classico rettangolo aureo
 (1,61803...). I formati 4,5x6 cm, 6x8 cm e 9x12 cm hanno invece un rapporto di 3:4
 (1,333...), più simile a quello dello schermo televisivo classico. Proporzioni simili
 ha anche il formato professionale 5x7" (1,4). Più vicini al formato quadrato sono
 invece il medio formato 6x7 cm (1,1666..) e i grandi formati 4x5" e 8x10" (1,25). La
 suddivisione del fotogramma organizza lo spazio interno in modo da dare risalto
 agli elementi più importanti della composizione. Ciò significa sistemare il soggetto
 nella posizione più adatta a conferirgli l'importanza che esso richiede. Il
 principiante di solito sistema il soggetto principale nel centro geometrico del
 fotogramma: non che questo sia di per se stesso sbagliato, ma semplicemente non
 è sempre questa la posizione più adatta.
 Un soggetto che campeggia in mezzo al fotogramma tende a suggerire una
 connotazione di staticità, data dalla perfetta simmetria degli spazi che lo
 circondano. Al contrario, l'asimmetria suggerisce movimento e dinamismo. Di
 questo erano ben consapevoli gli artisti dell'antichità classica, i quali si posero il
 problema di regolamentare ed organizzare lo spazio in modo che anche
 l'asimmetria rispondesse a criteri di armonia e di equilibrio. Occorreva scandire lo
 spazio in modo da suggerire all'osservatore un ritmo, un andamento quasi
 musicale.
 Si deve probabilmente a Pitagora e alla sua setta mistico-scientifica la prima
 descrizione della sezione aurea del segmento e la scoperta di tutte le sue
 interessanti proprietà. Essa è infatti la base per costruire numerose figure
 geometriche la cui modularità sembrò suggerire significati magici e mistici: la stella
 a cinque punte (simbolo iniziatico dei pitagorici che contiene in se stesso la
 formula della sezione aurea), la spirale regolare, ma soprattutto il rettangolo aureo,
 il divino rettangolo dalle perfette proporzioni che costituì la base di tutta l'arte
 classica e che affascinò generazioni di architetti lungo l'arco di venticinque secoli:
 dai costruttori di Nôtre Dame ai pittori del Rinascimento, dagli scenografi barocchi
 a Le Corbusier. Se si consideravano i lati del rettangolo come segmenti e si
 tracciavano le perpendicolari passanti per i loro "punti aurei", si ottenevano quattro
 linee (due verticali e due orizzontali) che si intersecavano in quattro punti. Si
 constatò che le figure posizionate lungo queste linee ("linee di forza") e ancor più
 quelle sistemante in corrispondenza di una loro intersezione acquistavano
 particolare forza espressiva.
 Le regole per costruire l'immagine basandosi sul rettangolo aureo perdettero
 presto le connotazioni magico-matematiche originarie e divennero oggetto di
 insegnamento nelle accademie di pittura. Quando però a quest'arte si
 interessarono anche i dilettanti ignari di geometria, divenne necessario
 semplificare la regola del rettangolo aureo. Alle ricche signore inglesi della fine del
 Settecento che si divertivano a dipingere i loro giardini e i parchi delle loro ville nei
 tiepidi pomeriggi d'estate non si poteva chiedere di prendere in mano un
 compasso e cimentarsi in una costruzione geometrica, per quanto semplice. Fu
 così che si incominciò a suddividere lo spazio della tela in tre parti uguali, sia
 orizzontalmente che verticalmente, in modo da ottenere con maggiore semplicità le
 linee di forza. Le loro intersezioni furono chiamate "incroci dei terzi".
 Come già avveniva per il rettangolo aureo, gli elementi figurativi posizionati in
 prossimità degli incroci dei terzi apparivano particolarmente pregnanti e
 significativi. La fotografia non fece altro che ereditare dalla pittura questo aspetto
 del codice, così come ha ereditato quasi tutte le regole della composizione.
 Purtroppo, come spesso avviene, questo accorgimento nato per dare ritmo e
 respiro alla composizione divenne anche per i fotografi una regola inderogabile,
 una ferrea norma da accademia, una legge la cui trasgressione equivaleva ad una
 confessione di incapacità o - peggio - di devianza.
 E' indubbio che una composizione basata sulla scansione in terzi appaia mossa e
 dinamica, armoniosa nella sua asimmetria giustamente scandita, ma non è scritto
 da nessuna parte che questo sia l'unico modo giusto per disporre gli elementi
 all'interno dell'inquadratura. Vale anche a questo proposito ciò che abbiamo già
 detto riguardo al codice e alla sua capacità di accettare ragionevoli trasgressioni.
 Si pensi ad esempio alla regola che prescrive di non sistemare la linea d'orizzonte
 nel centro esatto del fotogramma: essa deriva dal fatto che se il cielo e il paesaggio
 terrestre avessero la stessa importanza in termini quantitativi, lo sguardo dello
 spettatore rischierebbe di vagare incerto fra l'uno e l'altro elemento, senza capire a
 quale dei due prestare maggiore attenzione: se invece il fotografo sistema la linea
 dell'orizzonte lungo una delle linee di forza, in modo che i due elementi (cielo e
 paesaggio terrestre) si pongano fra loro nella proporzione di 1/3 contro 2/3, la
 decodificazione del messaggio risulterà più facile e priva di ambiguità: il
 destinatario riconoscerà con certezza l'elemento al quale il fotografo ha voluto
 attribuire la maggiore importanza. Ma se fosse proprio l'ambiguità il soggetto del
 messaggio? Pensiamo al gioco dei riflessi, a quanta efficacia informativa (causata
 proprio dall'ambiguità) possiede un'immagine nella quale la perfetta specularità
 del soggetto e del suo riflesso provocano nel destinatario tensione e inquietudine,
 costringendolo a mettere in discussione la certezza dei propri codici percettivi. Una
 situazione come questa richiede imperiosamente che la linea di separazione tagli
 il fotogramma esattamente a metà, accorgimento senza il quale verrebbe meno
 quell'ambiguità che costituisce il vero elemento informativo di un'immagine di
 questo tipo.
 La disposizione dei diversi elementi nello spazio del fotogramma viene indicata
 dagli autori anglosassoni con il termine pattern. Esso viene in genere tradotto con
 la parola "composizione", la quale però ricopre in tal modo un campo semantico
 troppo ristretto ed acquista un significato riduttivo rispetto a quello, più ampio, che
 noi le abbiamo dato. Continueremo perciò a servirci del termine inglese, senza
 tradurlo. Il pattern è dunque il modo in cui i diversi elementi grafici si strutturano fra
 loro in un gioco di volumi che rende armoniosa la composizione. L'alternarsi delle
 forme, messe in risalto dalla qualità e dalla direzione della luce, diventa di per se
 stesso un elemento significante. Un esempio limpido e lineare di pattern spinto alle
 estreme conseguenze è costituito dalla pittura astratta: le forme pure e rarefatte di
 Mondrian e di Herbin non denotano alcun referente reale: il codice, libero dai
 vincoli della rappresentazione-riproduzione, parla di se stesso e invita il
 destinatario a riflettere sulle sue possibilità espressive; il ritmo della composizione,
 scandito dall'alternanza di pieni e di vuoti, assume un andamento quasi musicale,
 che costringe la mente dell'osservatore a uniformarsi a una sorta di segreto
 respiro.
 Fra i diversi centri di interesse dell'immagine possono essere tracciate delle linee
 che li separano o li uniscono. Queste linee possono coincidere con elementi
 figurativi rappresentati (la linea dell'orizzonte, ad esempio), o al contrario possono
 essere soltanto immaginate dallo spettatore, che desume la loro presenza
 all'interno della struttura grazie all'andamento generale della composizione: Una
 catena di montagne, anche se mossa e frastagliata, ha un suo andamento
 mentalmente rappresentabile con una linea: se le vette hanno tutte la stessa
 altezza si dirà comunque che la catena ha un andamento orizzontale; se invece
 sono di altezza crescente verso destra o verso sinistra si individuerà un
 andamento coincidente con un'immaginaria linea obliqua. I codici rappresentativi
 propri della nostra cultura (e si tratta di una constatazione, non di una regola) ci
 hanno abituati a percepire le linee orizzontali come segno della staticità, della
 calma e della quiete: per questo si dice comunemente che le composizioni
 dall'andamento orizzontale "suggeriscono" queste sensazioni. Al contrario si
 ritiene che le linee verticali suggeriscano in generale slancio ed elevazione,
 mentre le composizioni giocate su linee oblique o diagonali rispetto al fotogramma
 sembrano più adatte a tradurre la sensazione del movimento: questo a causa delle
 connotazioni di precarietà, di equilibrio instabile e di tensione che sono proprie
 delle linee oblique nella rappresentazione grafica.
 Alla ricerca della terza dimensione
 La fotografia è una rappresentazione bidimensionale. Ciò significa che il mondo a
 tre dimensioni che noi percepiamo viene tradotto sulla pellicola appiattito, privo di
 una delle tre dimensioni dello spazio euclideo. L'assenza della profondità è un
 handicap che la fotografia ha evidentemente ereditato dalla pittura, così come
 dalla pittura ha ricevuto gli insegnamenti necessari per superarlo. Il principale fra
 questi è costituito dalla prospettiva. La prospettiva permette di rappresentare su un
 piano gli oggetti tridimensionali, in modo tale che l'immagine fornisca allo
 spettatore un tipo di percezione analogo a quello che egli avrebbe osservando la
 scena dal vero. Sembra che già gli artisti della Grecia classica conoscessero
 alcuni accorgimenti grafici atti a rendere l'impressione della profondità spaziale.
 Purtroppo (se si eccettua la pittura vascolare) la massima parte della pittura greca
 è per noi perduta, al pari della pittura ellenistica e quindi romana. Qualcosa di più
 ci dicono gli affreschi pompeiani e i mosaici, dai quali tuttavia non sembra potersi
 dedurre la conoscenza di regole prospettiche chiaramente codificate. Le botteghe
 medioevali tramandarono nel proprio ambito regole empiriche di rappresentazione
 prospettica che giunsero così fino al Rinascimento, epoca in cui si verificò il salto
 definitivo: il celebre trattato di Leon Battista Alberti codifica la perspectiva
 artificialis, facendone regola di rappresentazione pittorica. L'uso e l'elaborazione
 teorica delle regole della prospettiva rivestì, per gli artisti del Rinascimento,
 un'importanza ben superiore a quella di un semplice artificio grafico: codificare la
 rappresentazione dello spazio euclideo significava scoprire, nella realtà stessa,
 regole geometriche riproducibili pittoricamente. Significava, in altre parole, scoprire
 che il mondo (macrocosmo) possedeva un ordine matematico coincidente con
 l'ordine mentale dell'uomo (microcosmo), e quindi da questi non soltanto
 rappresentabile ma anche indagabile scientificamente. Dio stesso aveva fatto sì
 che la mente umana possedesse il medesimo tipo di ordine presente nel mondo,
 concedendo all'uomo la possibilità illimitata di penetrare i misteri della natura: ogni
 segreto sarebbe stato svelato, col tempo, dal momento che - come ebbe a scrivere
 più tardi Galileo Galilei - "La mathematica è l'alfabeto in cui Dio à scritto l'Universo".
 La fede cieca nel soprannaturale e il conseguente disprezzo per il mondo
 materiale che avevano improntato di sé gran parte del Medioevo cedono il posto a
 una fede nuova, dove un Dio che si manifesta attraverso il mondo dona all'uomo la
 possibilità e gli strumenti per andare - attraverso il mondo - alla sua ricerca. Nel
 Seicento il problema diventa, oltre che artistico, scientifico e matematico: si codifica
 la geometria proiettiva, mentre lo studio della rappresentazione prospettica trova
 applicazione nei complicati trompe-l'oeil e nelle sontuose scenografie teatrali del
 Barocco. Nell'Ottocento l'idea di prospettiva come categoria assoluta entra in crisi:
 gli impressionisti le negano la prerogativa di unico strumento per la
 rappresentazione della natura, mentre vari studiosi di estetica evidenziano
 l'esistenza di altre forme di rappresentazione tridimensionale.
 Contemporaneamente viene messa in risalto la non corrispondenza fra visione
 prospettica e visione reale, finché nel 1927 Panofsky evidenzia la funzione
 puramente simbolica della prospettiva, che si fa elemento significante di modelli
 culturali più che rappresentazione di strutture reali. Nonostante questa evoluzione,
 di cui in ogni caso occorre essere consapevoli, il concetto di prospettiva è ancora
 ben radicato nella nostra cultura, tanto che nessun disegnatore può permettersi di
 ignorarlo. Semplicemente, abbandonata la pretesa rinascimentale di riprodurre
 l'ordine geometrico del mondo, noi oggi consideriamo la prospettiva come sistema
 rappresentativo codificato, comune agli appartenenti alla nostra cultura e utile per
 comunicare al destinatario - che condivide il codice - l'esistenza della terza
 dimensione. Ma non basta: la prospettiva geometrica viene usata soprattutto per
 "guidare" l'attenzione dello spettatore verso il soggetto principale o verso un punto
 di interesse, funzionando così come il più potente degli "indici vettori": tutta la
 composizione tende verso il punto di fuga e vi si dirige, invitando il destinatario a
 fare altrettanto (è ovvio che in corrispondenza del punto di fuga deve esserci
 qualcosa di interessante). Alcuni manuali ancora insegnano che le linee di fuga
 "conducono" lo sguardo verso il punto di fuga, quasi fossero binari lungo i quali far
 scorrere gli occhi. In realtà una simile affermazione non trova riscontro nei nostri
 meccanismi percettivi. Il percorso compiuto dallo sguardo dello spettatore che
 osserva un'immagine segue in realtà schemi diversi e più complessi: la
 registrazione dei movimenti oculari dimostra come lo sguardo vaghi in maniera
 apparentemente disordinata intorno ai principali punti di interesse. Quella che noi
 crediamo percezione globale e simultanea di un'immagine è in realtà la somma di
 piccole esplorazioni parziali: i rapidi movimenti oculari fanno sì che la parte
 centrale della retina (la fovea) esplori e scandisca lo spazio in tempi successivi,
 anche talmente rapidi da rimanere al di sotto della soglia della consapevolezza. In
 ogni caso, anche se non è vero che le linee di fuga "conducano" lo sguardo
 dell'osservatore, è però vero che esse contribuiscono ad orientare
 convenzionalmente i vari elementi dell'immagine in modo da invitare lo spettatore
 (che conosce il codice) a soffermarsi sui punti voluti. Se i pittori toscani del
 Rinascimento affidarono prevalentemente alla prospettiva geometrica il compito di
 rappresentare la terza dimensione dello spazio euclideo, i pittori veneti, dalla fine
 del Quattrocento in poi, impararono a rendere la profondità in termini di variazioni
 cromatiche e tonali. Empiricamente essi avevano constatato che con l'aumentare
 della distanza venivano a mutare la saturazione cromatica, la resa tonale e la
 definizione generale dell'immagine. La loro tavolozza composita, ricca di colori
 sfumati e di nuances sconosciute ai toscani, permise loro di trasferire sulla tela
 questo fenomeno. Così, se si osservano con attenzione certi capolavori dell'arte
 veneta del Cinquecento, si nota un certo quale abbandono della prospettiva
 geometrica a favore di una resa tonale più ricca e variata, che traduce i piani più
 lontani con colori tenui e "freddi", quasi fossero avvolti dalla foschia. Questo tipo di
 prospettiva (prospettiva aerea) è ben noto ai fotografi di paesaggio i quali, come i
 pittori, sanno sfruttare la graduale perdita di nitidezza dei piani lontani dovuta alla
 diminuita capacità di penetrazione delle lunghezze d'onda più elevate attraverso
 gli strati dell'atmosfera. Per esperienza lo spettatore conosce il fenomeno e
 pertanto interpreta la graduale perdita di definizione dei piani lontani come segno
 dell'aumentare della distanza.
 "Previsualizzare" l'immagine finale
 Finalmente abbiamo compiuto la nostra scelta. Abbiamo isolato dal contesto un
 frammento di realtà e abbiamo deciso che esso meriti di venire tradotto in
 comunicazione visiva. Abbiamo attentamente valutato i principali spunti
 compositivi utili a dare risalto al soggetto e siamo adesso in grado di farne il
 principale portatore del nostro messaggio. Grazie al procedimento attraverso il
 quale riusciremo a strutturare l'opera comunicheremo al destinatario non soltanto
 l'esistenza della realtà fotografata ma anche e soprattutto gli racconteremo il nostro
 modo - unico e irripetibile - di entrare in rapporto con essa. Gli diremo che cosa
 sentiamo nei confronti del soggetto, in modo che egli possa paragonare la nostra
 proposta di lettura e interpretazione con il suo sistema di attese e la sua visione del
 mondo. Allora le rispettive esperienze (dell'emittente e del destinatario) si
 incontreranno e si confronteranno, la prima attraverso l'opera, la seconda
 attraverso il complesso lavoro di decodificazione, portando così a compimento il
 processo comunicativo. Ma perché ciò avvenga, chiaramente e senza incertezze,
 occorre avere ben delineato a livello mentale il messaggio che si intende
 strutturare, nonché l'uso che si intende fare del codice. Occorre cioè mettersi nei
 panni del destinatario e - proiettati nel futuro - osservare l'opera finita con gli occhi
 dell'immaginazione. Si tratta di ciò che Ansel Adams definiva "previsualizzazione"
 dell'immagine finale. Si tratta essenzialmente di individuare gli elementi
 significanti, decidendo come trattarli per dare loro il dovuto rilievo; di conseguenza
 bisognerà stabilire con precisione in che modo utilizzare (e in quale misura
 violare) il codice, quali espedienti tecnici e compositivi far entrare in gioco, come
 eliminare gli elementi non significanti.
 L'importanza della tecnica fotografica
 A questo punto il problema è: come ottenere l'immagine a lungo studiata,
 strutturata mentalmente e previsualizzata? è qui che il possesso delle necessarie
 capacità tecniche si rivela non già un virtuosistico sfoggio di bravura fine a se
 stesso, ma bensì un'indispensabile conoscenza dei processi formativi dell'opera,
 funzionale alla struttura stessa del messaggio e all'organizzazione dell'immagine
 esattamente come era stata previsualizzata. Soltanto il fotografo che conosce i
 propri strumenti di lavoro e che li sa usare ai limiti delle loro possibilità tecniche
 potrà sperare in un risultato non casuale; soltanto chi è in grado - tanto nella teoria
 quanto nella pratica - di seguire con consapevolezza ogni fase della formazione
 dell'immagine potrà essere certo che il messaggio pervenuto al destinatario sarà
 esattamente quello voluto. Qui i due aspetti del lavoro del fotografo (quello tecnico
 e quello compositivo-espressivo) si toccano e si completano l'un l'altro: la tecnica è
 funzione dell'espressione, la quale a sua volta non sarebbe possibile senza gli
 strumenti adeguati. C'è una parola del greco antico, techne, il cui significato è tanto
 "arte, "attività artistica" quanto "tecnica", "lavoro manuale". Anche l'artifex latino era
 a un tempo artista e tecnico. I due significati rimasero immutati, nella coscienza
 dell'Occidente cristiano, per tutta l'antichità e il Medioevo. Soltanto nel
 Rinascimento l'artigiano, il tecnico da un lato e l'artista dall'altro intrapresero due
 strade che oggi sentiamo come distanti e inconciliabili. Ma se esiste una forma di
 comunicazione (o, per chi lo preferisce, di espressione) che ancora riunisce in sé i
 due antichi significati, questa è proprio la fotografia. Nessun artista è costretto a
 fare i conti con strumenti così tecnologicamente complessi, mentre nessun tecnico
 riesce a piegare i propri mezzi di lavoro all'espressione di contenuti tanto profondi.
 Per questo la fotografia - snobbata di volta in volta come forma d'arte o tecnologia,
 relegata dagli uni nel cantuccio delle arti minori, dagli altri tra le tecnologie
 imperfette - merita la considerazione dovuta a una forma di comunicazione dalle
 caratteristiche uniche ed irripetibili, che non trovano né possono trovare termini di
 paragone adeguati.
 Michele Vacchiano, © 11/2001
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