x I termini di utilizzo di photo4u.it sono stati aggiornati in base alle attuali leggi europee per la privacy e protezione dei dati (GDPR). Puoi leggere la nuova versione nella pagina Termini di utilizzo e Privacy.
photo4u.it
Menù
Home Home
Forum Forum
Fotografie Fotografie
Le tue Preferite Le tue Preferite
Foto della settimana Foto della Settimana
Foto in Vetrina Foto in Vetrina
i Contest di photo4u.it Contest 4u
Taccuino fotografico Taccuino fotografico
Grandi Memo Grandi Memo
Articoli Articoli
Interviste Interviste
Le recensioni degli utenti Recensioni
Tutorial Tutorial
Eventi Eventi
Libri Libri
Segnalazione concorsi Concorsi
Donazioni Donazioni
utileFutile utileFutile
Lo staff di photo4u.it Lo staff
Contatti Contatti
Privacy policy Privacy policy
Benvenuto!
Login
Utente:

Password:

Login automatico
 
Taccuino fotografico
Appunti su alcuni scatti che ci hanno colpito.
Il girasole, la fatina e piero

Foto di Klizio
Poniamo il caso di un dodicenne, sempre vissuto in città, che non ha conosciuto le bisnonne e le cui nonne non sono propriamente maghe del tricot.

Per giunta questo ragazzino non ha ancora affrontato l’epica classica a scuola ...

Nell’accostarci a un’immagine procediamo, per prima cosa, a un’analisi ingenua, con ciò intendendo un’analisi delle forme e dei rapporti che tra loro intercorrono.

Solo successivamente entra in gioco il bagaglio di esperienze che ci portiamo appresso, quella cosa, cioè, che si potrebbe serenamente chiamare “cultura”, se questa non fosse troppo spesso equivocata con la quantità di studi fatti a scuola e vista come qualcosa di cui quasi vergognarsi, e comunque da nascondere.

Così, ad esempio, in questa fotografia, procedendo da sinistra a destra secondo la direzione della scrittura (non perché vada di moda “leggere” le fotografie, ma perché il nostro sguardo di occidentali, proprio per l’abitudine alla scrittura, così cammina quando affronta le cose che osserva), percepiamo alcune linee verticali bianche e altre scure, illuminate, dalle quali si dipana una linea rossa che si attorciglia attorno a una figura verticale drappeggiata di chiaro, per poi proseguire verso un’altra figura scura, posta più indietro, sulla quale anche si avvolge.

Continuando a perlustrare, poi, ci accorgiamo di un piano, ruvido e azzurro, sullo sfondo, e ancora di quadrilateri sparpagliati a terra …

Immediatamente dopo, così immediatamente che quasi pare che le due operazioni coincidano, identifichiamo le linee illuminate a sinistra, la linea rossa attorcigliata alle due figure verticali, il piano ruvido sullo sfondo e quei quadrilateri sparpagliati a terra, e così via.

E cataloghiamo dapprima ogni singolo elemento e poi il tutto per arrivare a definirlo come “una stanza dai muri azzurri e ruvidi ricoperti di ragnatele in cui, da una finestra aperta, entra un filo rosso che avvolge una donna vestita di un peplo chiaro, che impassibile (vi prego di annotare la circostanza) guarda verso l’esterno.

Il filo prosegue alle spalle della donna per avvolgersi su un arcolaio
”.

Come dicevo, classifichiamo con sicurezza ogni elemento, inserendolo nella casella appropriata: “stanza”, “finestra”, “donna”, “peplo” (va beh, peplo il nostro dodicenne non sa bene che cosa sia, magari dice “vestito corto”) “filo”, “muro”, “ragnatele”, “arcolaio” (e anche qui il ragazzino probabilmente corre a chiedere aiuto a qualche adulto) …

Ogni tessera di questo mosaico è un’idea astratta ben sistemata nel data base del nostro cervello che la richiama alla superficie non appena l’occhio si imbatte in un esemplare concreto che a quell’idea astratta corrisponde.

È qualcosa che ha del prodigioso: non abbiamo in mente ogni possibile arcolaio prodotto dal giorno in cui qualcuno l’ha inventato a quello in cui si è smesso di usarlo, abbiamo in mente un archetipo di arcolaio a cui riconduciamo gli esemplari che, via via, incontriamo sul nostro cammino.

E così è per ogni cosa. E quando ne incontriamo una nuova che non conosciamo ancora, cerchiamo di capire di che si tratta e ci costruiamo un nuovo archetipo che rimane depositato nel cassetto della nostra memoria fino al momento in cui ci sarà bisogno di tirarlo fuori.

Così ha fatto il nostro dodicenne con l’arcolaio. E pure con il peplo.

Forse ...

Arrivati a questo punto, però, non ci basta aver individuato le forme e i colori; averli riconosciuti come oggetti (ragnatele, fogli, muro), colori (azzurro, rosso, bianco), persone (donna), fenomeni (luce), azioni (essere impassibile, osservare, avvolgersi); averli connessi tra loro (si chiamano sintagmi, queste connessioni - shhhhhh) per arrivare a formulare la frase che descrive la visione di insieme.

Difficilmente, infatti, ci accostiamo a un’immagine ragionando solo in termini di linee, volumi, colori …

Cerchiamo piuttosto di ricondurre ciascun elemento a un oggetto che già conosciamo.

Ma anche questo è solo un punto di partenza.

Perché quello che veramente vogliamo sapere è “che cosa vuol dire l’insieme”: tutto ciò che ci circonda, normalmente, ha per noi un significato e, quando non ne ha, o – il che è lo stesso – pare non averne, tentiamo di conferirgliene.

E per farlo, ricorriamo a quanto abbiamo appreso nel tempo.

Sistemati come sono, secondo un certo ordine all’interno di una finestra che delimita, in una cornice, una porzione di spazio, gli elementi delle fotografie ci interrogano.

Quante volte chiediamo all’autore di una foto (soprattutto quando ci appare lontana dai nostri canoni): “ma che cosa volevi dire?” o, se siamo (o ci sentiamo) più consapevoli di noi stessi e delle nostre capacità: “scusa, ma non mi arriva” (così ribaltando il problema: non siamo a noi a non capire, ma l’autore a non essersi spiegato bene).

Quante volte ci siamo sentiti rispondere da qualche malizioso: “non conta molto quello che voglio dire io, quello che mi interessa e ciò che ci ritrovi tu”.

E che frustrazione quando non ci ritroviamo proprio un bel nulla.

Ci sentiamo quasi presi in giro.

Perché siamo presuntuosi e ci dà fastidio ammettere che il problema è solo nostro, della nostra scarsa cultura e della nostra ancora più scarsa fantasia.

Ma, per tornare alla fotografia di Klizio, che cosa significa questa donna, chiusa in una stanza spoglia e sporca, affacciata a una finestra che posso solo intuire (e attenzione, è proprio la mia esperienza pregressa a dirmi che lì c’è una finestra), mentre regge in mano un filo che la annoda e la lega, da un lato, all’arcolaio e, dall’altro, a qualcosa che è all’esterno e che non vedo?

A questo punto scatta la molla che ci impone di munirci di un bel secchio per andare ad attingere al pozzo della nostra cultura.

Conoscere l’autore del gioco, sapere quali sono i suoi gusti, le sue inclinazioni, le sue curiosità, gli studi fatti … è utile.

Conoscere qualcosa a proposito di storie di donne alla finestra, fili, arcolai, stanze spoglie … anche questo è utile.

Conoscere la foggia degli abiti nelle varie epoche, il periodo in cui certi strumenti sono stati utilizzati e se lo siano ancora, l’effetto del tempo, ad esempio, sulla formazione di ragnatele … beh, è un’altra roba che può tornare utile.

Sappiamo che Nicola ha seguito studi classici.

Ce lo dice innanzitutto il suo nickname.
Anche la sua galleria su p4u non tace sul punto.

Sappiamo che ama Storm Thorgerson (ce lo ha detto lui) e infatti ritroviamo nella sua produzione un certo tipo di immagini che comunemente vengono definite “surreali”, ma che più precisamente dovrebbero stare nel barattolo del “realismo magico” (nel senso dato al termine dal critico e storico dell’arte Roh, non nel senso della letteratura sudamericana della metà del Novecento – un senso quest’ultimo in cui potrebbero tranquillamente stare anche Murakami e molti Giapponesi), magari un’altra volta ne parliamo diffusamente (magari anche no).

A questo punto, dando fondo a fantasia e cultura, potremmo collocare la donna in una non meglio precisata antichità (la stanza vetusta, il peplo che indossa …).

Ragionando poi sul filo, potremmo pensare a Arianna.

Riflettendo sulla posa della modella, potremmo arrivare a convincerci che sta guardando Teseo allontanarsi da Nasso.

E siccome conosciamo un po’ l’epica classica, aggiungiamo che lui sta fuggendo, vele nere dispiegate (per dimenticanza o inopinato calcolo, dipende dalla storia cui si vuol prestare orecchio) dopo averla abbandonata.

O dopo aver ubbidito al dio che gli imponeva di abbandonarla, volendola per sé (nuovamente la scelta della storia dipende dal nostro temperamento e dalla versione che ci piace di più).

Rimasta impigliata nel filo rosso del suo destino d’amore per un filibustiere o, se preferiamo, per un umile servitore di un volere più alto (quante implicazioni!) è ferma nella casa spoglia che avrebbe voluto abitare con lui, priva di vita e di felicità, con tutti i piani per un “futuro insieme” sparsi a terra come carte inutili.

Non male, vero?

Romantico e anche un po’ sentimentale. Se mi chiamassi Anna K. e vivessi nella Russia di fine Ottocento mi verrebbe pure una lacrimuccia.

Per fortuna sono una cinica cinquantenne nel XXI secolo!

Osservando meglio, però, possiamo tornare su quella prima impressione ricevuta dal volto della donna: la nostra bella è ineloquente.

Ah! È a questo punto che ci viene in soccorso Piero della Francesca (e pure un po’ Cézanne). Piero della Francesca ritrae soggetti che non hanno urgenza di comunicare un bel niente.

Ciò che conta è la loro stessa presenza sulla scena: sentimenti, intenzioni, emozioni, relazioni … Nulla trapela dai loro volti impassibili, nulla dai loro gesti immobilizzati in un’innaturale ieraticità.

Questo contrasta con tutte le teorie che ci siamo costruiti circa la bontà di un ritratto. Pensiamoci bene: che cosa comunica il mezzo sorriso ineffabile e “enigmatico” (come a molti piace definirlo semplicemente perché non hanno miglior definizione) di Monna Lisa?

Che ce ne facciamo di personaggi così?

Semplice, li riempiamo dei nostri significati.

Ecco il gioco dell’artista. La sua vera preoccupazione non è veicolare il proprio messaggio verso il pubblico “osservante” (il termine è volutamente equivoco).

Al vero artista non interessa riempire dei vasi con i suoi pensieri, i suoi messaggi, le sue idee.
Al contrario, vuole che sia chi fruisce della sua opera a trarre le proprie conclusioni, liberamente.

E tanto più l’opera sarà artistica quanto più a lungo riuscirà a parlare, non solo ai contemporanei (perché magari ne incontra il gusto) ma anche a chi verrà dopo.

Con il secchio pieno di elucubrazioni ci accingiamo a concludere il godimento di questa fotografia.

Pensiamo, magari, che anche le Moire sono distaccate. Scevre da qualsiasi empatia, tengono tra le dita il destino degli uomini che inesorabilmente filano, avvolgono sul fuso e recidono.

Così troviamo ancora un significato (se ci sforziamo anche altri, potremmo pensare a qualche legame con Pavese e i suoi Dialoghi con Leucò, o con Von Hofmannstahl e la sua Arianna a Nasso … ma è meglio fermarci qui).

A me piace pensare a una donna moderna.

A un’Arianna-Atropo che taglia il filo del destino che la lega a Teseo e si riprende la propria vita, morendo al passato per ricominciare, in barba a tutti gli stereotipi in cui per secoli, per paura (e purtroppo a volte anche per comodo) le donne si sono lasciate rinchiudere.




Bibliografia:

Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso
Marcel Duchamp – Calvin Tomkins, The Afternoon Interviews
Umberto Eco, Trattato di semiotica generale
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò
Hugo Von Hofmannstahl, Ariadne auf Naxos
Bernard Berenson, Piero della Francesca o dell'arte non eloquente
Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura
teresa zanetti

Tutti i contenuti presenti sul sito sono di proprieta' esclusiva degli autori, sono vietate la riproduzione e la distribuzione degli stessi senza previa esplicita autorizzazione.

Visualizza la policy con cui vengono gestiti i cookie.

© 2003, 2015 photo4u.it - contatti - based on phpBB - Andrea Giorgi